Intervista al compositore Giampaolo Testoni

Giampaolo Testoni applaudito alla fine dell’esecuzione di alcuni suoi lavori da parte dell’Orchestra Filamornica di Lubiana (2013)


di VINCENZA LONGO – Giampaolo Testoni, nato a Milano nel 1957, è un compositore del nostro tempo. Figlio d’arte, ha esordito nel 1978 e da allora la sua musica è stata eseguita e commissionata in Italia e all’estero. Ha fondato nel 1980, con altri giovani compositori italiani, il movimento musicale poi definito dalla critica “neoromantico”, in aperta ostilità culturale e metodologica con le avanguardie Post-Darmstadt. La sua esperienza di opposizione lo colloca in una sorta di “zona franca” in cui il compositore milanese si muove tra tradizione e innovazione: uno spirito libero che, riprendendo la grande lezione della musica al di fuori dalla seconda Scuola di Vienna del Novecento, non rinuncia all’espressività e all’idea moderna di ampia comunicazione del suo contenuto musicale.

Iniziamo, come d’obbligo, dalle origini. Suo padre, Gian Carlo Testoni, era un paroliere, un poeta.

La tradizione di famiglia era quella del teatro: Alfredo Testoni, mio prozio, era un famoso poeta, commediografo e “capocomico” che ha scritto dalla fine dell’Ottocento agli anni Trenta del Novecento. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale mio padre si occupò, con alcuni colleghi, anche di musica jazz, allora vietata dal fascismo. Erano riusciti a farsi inviare da un amico, Ezio Levi, i primi dischi jazz, disponibili negli Usa, che ascoltavano nelle cantine. Alla fine del conflitto si dedicò alla critica militante di questa nuova musica fondandone la prima rivista italiana e scrivendone la prima enciclopedia.

Negli anni Cinquanta, agli esordi della musica leggera, scrisse canzoni notissime come Grazie dei fior e Perduto amore (in cerca di te), melodie famose del repertorio di quegli anni (bisogna specificare che allora non esistevano i cantautori, ma parolieri e compositori che scrivevano per gli interpreti).

Una questione molto discussa è quella del rapporto tra musica e parola: lei crede ci sia un predominio di una sull’altra?

Come conseguenza dei miei studi accademici di composizione, concentrati soprattutto sul madrigale, ho sempre preferito leggere più poesia che prosa. Il madrigale è incentrato sull’idea che la musica sia generata dalla poesia e, pertanto, il compositore cerca di esprimere al massimo grado l’intensità, il significato di ogni parola. Questo rapporto così intenso con la parola poetica per generare l’espressività musicale, e, quindi, il tentativo di esprimere con la musica il significato della parola poetica, è un fatto vitale: più alto sarà il tono della poesia più sarà elevato ed intenso il tono musicale. Se un compositore è attento a questo il testo poetico aiuta ed è come se la musica fosse già scritta. Questo aspetto mi ha attirato e poi anche molto influenzato.

Forse è più semplice arrivare al pubblico con la parola.

In Italia il repertorio liederistico non ha avuto sviluppo perché il nostro melodramma, scritto con la nostra lingua, ci appartiene biologicamente. Attraverso la liederistica il rapporto con il pubblico, a mio parere, può, però, essere più intenso: è meno potente perché non c’è l’elemento teatrale, il testo è nudo, si è in diretto contatto con esso, ma la grande tradizione e il repertorio non comprende la nostra lingua, tranne una piccola parte novecentesca.

La liederistica potrebbe essere ancora un mezzo per avvicinare alla musica classica perché, in fondo, c’è ancora questa differenza: i melomani spesso non frequentano i concerti di musica da camera e gli appassionati di musica classica a volte non amano l’opera, mondi spesso antitetici.

Si potrebbe tentare di attirare un nuovo pubblico estraneo a entrambi i modi, ma che ascolta le canzoni pop. Bisognerebbe trovare una chiave interpretativa musicale e poetica, una musica e una poesia che parlino una lingua comprensibile e potenzialmente assimilabile anche da chi non ha esperienza e cultura musicale tradizionali. È un’ipotesi forse utopica vista la scarsità di mezzi economici destinati alla cultura e alla diffusione della musica d’arte più in generale.

Dal 1986 al 1993 scrisse Alice, un’opera in tre atti tratta da Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie e Alice oltre lo specchio di Lewis Carroll e, dopo quattro anni, compose i Sette Canti Romantici per voce e piano su poesie di P. B. Shelley, G. Conte, G. C. Pontiggia, D. Martino: ha notato un diverso riscontro del pubblico?

In entrambi i casi c’è stato un grande successo, un uditorio che ha accolto con gradimento e, forse, con stupore la mia musica, travalicando quei limiti virtuali di pubblico e superando le barriere di genere e mercato musicali. Tutto questo, potrei dire, grazie al mio linguaggio da sempre improntato alla ricerca di comunicazione di “affetti” e non “effetti”, complesso, ma comprensibile, memorizzabile persino, molto votato all’emozione sensuale dell’ascolto.

Prendendo spunto da una fiaba, la sua Alice può sembrare più fruibile.

Sì, anche se la mia Alice, essendo una variante molto “adulta” dei testi originali, ha ben poco di fiabesco e di rivolto al pubblico infantile. È lo sguardo dell’artista rispetto alla società; anzi, essendo un personaggio che osserva il mondo e poi si pone domande su di esso, le conseguenze possono portare a risultati tragici. Certo, a un primo sguardo ha ancora i contorni della fiaba con personaggi bizzarri, fantastici, un’originalità che, non le nego, fu molto utile: ricordo che molti genitori portarono i loro bambini, e anche più volte. Nonostante la durata dell’opera e la difficoltà, il risultato fu positivo e molti significati espressi dai personaggi, benché ambigui e complessi, vennero percepiti con chiarezza e semplicità. È ovvio che i più piccoli, attratti dall’aspetto fiabesco, non riescano a cogliere sfumature e sottotesti, però la musica è riuscita a veicolare emozioni fondamentali per tutto il pubblico senza eccezioni di età e cultura. La mia Alice ha una musica molto melodica, platealmente cantabile, ricca di timbri; l’impatto emotivo era, insomma, molto forte e avrei potuto raccontare qualunque cosa perché il risultato sarebbe stato ugualmente incisivo e trascinante.

Ha scelto la fiaba di Carroll in quanto adatta ad illustrare l’immagine dell’artista estraniato, scopritore di una realtà non immediatamente e generalmente percepita?

Con un mio carissimo amico poeta, Danilo Bramati, che scrisse il libretto, arrivammo a questo soggetto perché universale come significato, ma in definitiva ambiguo, aperto a ogni possibile interpretazione. I due libri di Carroll non hanno una direzione precisa, sono libri bizzarri da questo punto di vista. Il mondo di Alice è strano, è un groviglio di cose che avvengono, ma sufficientemente aperto nel significato per poterlo direzionare dove volevamo noi. Fu, quindi, una scelta dettata da questa possibilità di comunicare attraverso un testo che già dal punto di vista spettacolare offriva ampie possibilità.

Sette Canti Romantici arrivano, appunto, nel 1996, quattro anni dopo. Sono nati da una collaborazione?

Mi furono commissionati da Barbara Frittoli, una grande cantante, e la mia scelta cadde su questi testi.

Vi sono anche due poesie di Shelley.

Tradotte da un grande poeta italiano, Giuseppe Conte. Non saprei spiegarne la ragione, ma non me la sento di mettere in musica testi di lingua non italiana, una scelta forse dettata dalla semplice decisione di usare solo il mio idioma, una lingua di cui posso dominare ogni sfumatura e sonorità.

I poeti scelti non si possono definire “romantici” nel vero senso del termine, ma lo sono, in qualche modo, nei testi scelti poiché gli autori romantici sono anche il loro riferimento: idealmente si rivolgono a questa idealità che si estende anche a me. Io ho cercato di recuperare, anche nella parte musicale, un afflato, un modo di fraseggiare e narrare che si ricollega al mondo del canto da camera e alla sua tradizione occidentale, soprattutto nel repertorio di amati autori del Novecento. Uno sguardo affettuoso poi l’ho sempre mantenuto su Schumann, autore che ha espresso una serie di novità espressive importanti nella pratica liederistica.

In un’intervista lo ha definito “avanguardista”. Perché?

Forse mi riferivo al fatto che Schumann lavorasse sulle piccole forme. È un compositore molto vicino ai poeti perché la sua è una musica apparentemente improvvisata, poco organizzata in modo strutturale e cosciente, quasi scritta in trance. Ciò rientra nel suo modo di concepire l’arte: deve derivare sempre da un’ispirazione intensa, breve nel momento, ma molto potente e necessaria. Questo procedere a brevi fiammate di sentimento mi affascina molto: lo trovo moderno perché anti-accademico, dà un’idea di grande libertà e di afflato poetico. Una musica “fiammeggiante”, che emana raggi la cui bellezza si estingue rapidamente e apre improvvisi scorci di stanze piene di ombre notturne.

È il particolare nell’insieme.

Sì, mi affascinano quei compositori capaci di dare emozioni forti, anche di breve durata, alla continua ricerca di questo tipo di pulsione. Sono meno attratto dai sistematici, quei musicisti intenti a costruire. Però, ovviamente, il mio interesse per Bach è enorme. Un grande architetto capace di aprire egualmente quelle porte sulla nostra comune interiorità, ma con mezzi apparentemente più razionali che non emozionali e questa è la sua universale modernità: anche se pienamente inserito nella sua epoca riesce a proiettarsi fuori dal suo tempo.

In generale questa idea di artista costruttore e insieme poeta mi affascina molto perché diventa modello assoluto di Artista. Mi sento compartecipe di tutti quei compositori di ogni epoca che avverto come miei contemporanei, che superano le barriere del tempo e dello spazio. Vi sono musicisti che puoi studiare, puoi anche amare, ma che devi necessariamente collocare nelle caratteristiche del linguaggio della loro epoca e invece altri che, anche distanti dal nostro tempo, hanno questa capacità magica di comunicare come se fossero nostri contemporanei, fratelli, come se le loro opere fossero scritte oggi. Non senti la distanza tra te e loro e pensi “Avrei voluto scrivere io questo pezzo”. Oggi è l’istinto che mi spinge a creare. Non penso mai a quello che devo comporre, mi siedo e scrivo.

                                                                             Alice, atto I, scena III

Non lavora molto su quello che compone, quindi?

Non più, o per meglio dire, non penso a quello che devo scrivere, lo faccio e basta, la musica viene fuori da sola, lavorando.

Ciò è dovuto certamente all’esperienza, all’evoluzione.

Sicuramente è legato a questo. Ho iniziato alla fine degli anni Settanta, avevo solo ventitré anni quando ho esordito alla Biennale di Venezia. Prima di Alice riflettevo molto prima di scrivere, facevo delle prove, andavo un po’ a tentativi; progressivamente il pensiero si organizzava e veniva fuori il pezzo, ma, comunque, nel comporre mi creavo problemi, mi chiedevo quale strada percorrere, se sarebbe piaciuto al pubblico, come avrebbe giudicato la critica. Rivelavo il mio stile, il mio modo di esprimere naturale, ma assediato dai continui interrogativi su dove doveva collocarsi il mio linguaggio rispetto ad un prima e un dopo, rispetto a chi doveva percepirlo. Non ero completamente sicuro, completamente libero. Dopo Alice mi accorsi che la fatica di elaborazione era sempre minore e maggiore la mancanza di sforzo e la spontaneità. Oggi la mia ispirazione è in tempo reale: le cose nascono nel momento in cui inizio a scrivere. È come se aprissi un rubinetto da cui scende l’acqua, devo solo raccoglierla nel suo giusto recipiente.

Non vi è un continuo labor limae?

Il perfezionismo è aumentato con il tempo, ma lo spazio che intercorre tra la prima stesura e il perfezionarla, l’arrivare alla forma definitiva, è molto breve. Ciò vuol dire che la prima redazione è già quasi perfetta, so fin da subito cosa sto facendo e qual è il modo migliore per farlo; è come se il lavoro di perfezionamento lo avessi concluso prima ancora di iniziare a scrivere, so quali sono gli errori da non commettere e li evito. Questa è l’esperienza e la consapevolezza del tuo stile che arriva in tutti i compositori. La mia musica è nella mia mano, risiede nel mio orecchio interno e attende di rivelarsi attraverso il gesto della scrittura. Questo meccanismo naturale mi fa sentire assolutamente libero dai continui interrogativi e questo flusso spontaneo è un tutt’uno con me; quello che fai è assolutamente coerente con chi sei, con i tuoi desideri e le tue inclinazioni naturali, con i pensieri, con le luci e le ombre della tua anima.

In questo suo essere naturale c’è comunque qualcosa che la spinge a comporre?

Non so dirle da dove provenga la mia musica. La mia musica sono io. Io so poco in fondo di me, so quello che scopro di essere attraverso la musica che scrivo e questo mi può anche bastare. Quando ascolto le mie cose è come se guardassi la mia immagine riflessa in uno specchio, come se vedessi una mia fotografia: riconosco me stesso e anche quello che amo e che detesto, il mondo che sogno e quello che descrivo.

Lei prima di scrivere sa già quale sarà il risultato, ma le capita spesso, poi, di ascoltare quello a cui non aveva pensato?

Ciò che ho descritto può avvenire soltanto con la consapevolezza tecnica, avere la padronanza tecnica di cosa si desidera esprimere e come fare per ottenerlo. È la possibilità di conoscere le cose e come renderle espressione artistica. La tecnica è fondamentale per raggiungere e definire il proprio stile. Gli amici, colleghi, il pubblico che mi conosce, quando mi ascoltano sanno che sono io e cosa sto facendo con i suoni. Vuol dire che sono riconoscibile. È il mio stile a parlare.

C’è stata, comunque, un’evoluzione?

Il punto interessante è che c’è stato un cambiamento, ma se il pubblico, anche ascoltando un pezzo di trent’anni fa, mi riconosce vuol dire che il mio stile è come un marchio indelebile che sta all’interno del suono prodotto dalla scrittura. È ovvio che ci sia evoluzione e una ricerca stilistica, ma se un artista è autentico, sincero, lo riconosci fin dall’inizio. Usa nel tempo stilemi e colori diversi, ma si identifica nello stesso modo in cui si distingue un pittore: riconosci Picasso, Matisse e, anche se l’ultimo Picasso è diverso dal primo, sai che è lui. Riascoltando Alice a distanza di anni, mi rendo conto che ci sono cose che potrei scrivere esattamente uguali anche ora. Lo stile è identificabile quando è autentico, quando l’artista non mente. Dopo due battute distingui Schumann o Brahms: amici, fratelli, intimamente legati, accomunati da un vocabolario condiviso, la stessa armonia, ma sono sufficienti poche battute per riconoscerli nella loro diversità e unicità stilistica, dal fraseggio e dal modo di reinterpretare il “sentimento” del suono.

 Qual è la funzione del compositore oggi nella società? Ha una funzione o è semplicemente “arte”? Qual è la funzione dell’artista nel nostro tempo?

Penso che oggi, come sempre, l’artista debba avere un obiettivo: comunicare qualcosa.
Tutti gli artisti dovrebbero farlo, ma cosa sia il comunicare senza immagine e linguaggio verbale associato alla realtà è cosa assai misteriosa. È la specificità del coinvolgimento emotivo tipico della musica.

Però spesso nella contemporaneità delle arti questo non avviene: c’è una chiusura perché non c’è un riscontro.

Si crede che un pittore o un musicista contemporaneo non comunichino nulla o lo facciano per pochi eletti che “sanno” cosa cercare nella loro comunicazione, poi si entra, però, in un museo o sala da concerto per osservare e ascoltare il “passato”, il conosciuto e storicizzato perché si pensa che in questi casi il cosiddetto messaggio ci sia.

Forse perché l’orecchio è ancora abituato ad un tipo di musica tonale.

Anche io lavoro su quel tipo di materiale e sono convinto che ci sia corrispondenza tra la nostra fisiologia dell’ascolto e l’aspetto psicologico e intuitivo sedimentati da una stratificazione di opere e “progressi” evolutivi che nell’ambito del vocabolario “tonale” hanno costruito l’immenso patrimonio di condivisione e consapevolezza estetica dal medioevo e rinascimento fino ai nostri giorni. Tonale e tonalità sono cose diverse: io compongo partendo dall’armonia cosiddetta tonale, ma non uso la tonalità. La musica costruita sulla tonalità vera e propria è finita a fine Settecento, già Beethoven va oltre.

Il discorso potrebbe risultare ancora più banale: Beethoven, nella sua epoca, riuscì ad ottenere fama e consenso, nonostante i suoi guai e patologie psicofisiche mentre oggi esiste una difficoltà sostanziale ed evidente dell’artista di riprendere un ruolo attivo nella società dei consumi.

Oggi vengono offerti dei surrogati che appaiono sufficienti e soddisfacenti. Per fare un  esempio, il surrogato della musica classica è il pop, in tutte le sue varianti, o il jazz, e si produce della buona e della pessima musica in entrambi i casi. È, però, musica nata per scopi industriali, per alimentare la catena dello spettacolo e della comunicazione di massa, quasi sempre somma di interessi di terze parti che hanno scoperto, dal Secondo Dopoguerra, la potenza del mezzo al di là del messaggio che questo veicola, che anche l’arte diviene merce vendibile se ridotta nella forma, nella durata e nelle pretese di linguaggio. Prima della Seconda Guerra Mondiale, più o meno, prima dell’avvento della radio e dei mezzi di diffusione di massa di immagini e suoni, il pubblico attendeva e accoglieva come evento normale nuove opere; dopo la guerra si creano le condizioni sociali e industriali per una rinascita che tiene conto di nuovi bisogni e ne crea.

Il cinema non è altro che una fusione di teatro, musica e letteratura, il tutto racchiuso in una forma più breve, consumabile in un tempo adatto al nuovo stile di vita moderno, più veloce: in questo tempo brevissimo è come se leggessimo un libro di 400 pagine sintetizzato e semplificato, senza alcuna fatica. I surrogati delle arti madri, poesia, musica, pittura, nascono sulla richiesta di essere prodotti consumabili da chiunque senza sforzo apparente. È l’inizio di quello che oggi chiamiamo globalizzazione.

Le arti visive contemporanee sono diventate oggetto di investimento e business, acquistate da collezionisti o semplici investitori che vogliono diversificare il loro rischio economico e cautelarsi in caso di crisi economiche. Cantanti pop e interpreti nell’ambito classico sono più importanti in quanto personaggi, immagini pubbliche del contenuto di cui sono portatori, vale per la musica di consumo come per ciò che resta della musica classica cosiddetta. Non si coglie più la ragione per cui si debba andare a teatro ad ascoltare una sinfonia che dura un’ora quando ci si può concentrare su una canzone che dura appena tre minuti restando a casa sul proprio divano, magari guardando la televisione. La comune soglia di attenzione è in rapporto diretto con lo stile di vita frenetico, da sms costante, che ci comprime lo spazio vitale e la relativa comunicazione che deve essere per forza semplificata, economicizzata per essere accettata.

Questo è paradossale: un tempo erano maggiormente ridotte le possibilità di coltivare ed ampliare la cultura, lo studio era permesso solo ad una piccola élite, eppure musicisti come Mozart erano apprezzati dal popolo.

Ho spiegato cosa è avvenuto e temo che non si possa tornare indietro. Lì c’era un tempo adeguato alle cose, un tempo diverso, legato allo stile di una società tanto differente, una lentezza che oggi sarebbe giudicata inquietante, una mostruosità. So che ognuno deve fare quello che sa fare e gli artisti devono continuare a fare gli artisti, farlo al massimo grado e con la massima ricerca di qualità espressiva. Non possono fare altro, come i loro predecessori nelle rispettive epoche…perché guai ne avevano anche loro e spesso molto più grandi dei nostri!

Lei si sente avvilito da questa situazione?

Non desidero essere più famoso di un qualunque artista popolare. Non è questo il punto, come avrà capito, e non lo è mai stato per nessun vero artista in ogni epoca. Non ha alcun rapporto la cosiddetta fama o l’accettazione plebiscitaria con la qualità della tua arte. Io penso che un’artista, per continuare ad essere tale, debba essere onesto e fare al meglio quello che sa fare come un dovere etico, morale nei confronti della società. Egli deve contribuire al miglioramento della comunità in cui vive perché ha la possibilità di fornire indicazioni sull’idea umana di Bellezza, e la Bellezza ci può rendere anche più liberi perché contrapposta al male e alla violenza. Vuole farsi veicolo di valori assoluti, incarnare utopie, testimoniare condivisione, uguaglianza anche sociale; è, insomma, uno strumento per la felicità umana attraverso un’idea di rivoluzione dello spirito oltre barriere di qualunque tipo. Tutto ciò che conosciamo come Male è il contrario di ciò che l’arte esprime. L’arte deve servire a sottolineare la diversità e specificità umana in un contesto di comunanza, curiosità e spiritualità comprensibili. Gli artisti possono, anzi, devono fare questo.

Lei crede che la responsabilità di questa distanza dalla società e dai suoi nuovi bisogni possa essere attribuita, quindi, anche agli artisti contemporanei e al loro tacere e sottrarsi su questi aspetti?

Per la musica hanno avuto un peso negativo le neoavanguardie nate dopo la seconda Scuola di Vienna, ma bisogna riconoscere che costituiscono solo una minima parte nella storia della musica contemporanea; il problema è che dopo ci si è focalizzati solo su questo orientamento e lo si è estremizzato riducendone e distorcendone i contenuti. Ciò è accaduto anche in letteratura, e l’identica cosa nella pittura, in entrambi i casi a livello globale.

Agli inizi degli anni Settanta, come risposta a questa degenerazione, è cresciuto, prima negli Usa e dopo in Italia, un movimento di compositori che hanno voluto ripartire dal punto di rottura e ricucire i collegamenti spezzati dalle neo-avanguardie, un movimento che i critici americani, e poi italiani, hanno definito Neoromantico, nello stesso momento della Transavanguardia per le arti visive. Lo scontro con l’inadeguatezza e difficoltà a riprendersi un ruolo attivo nel nuovo modello sociale era inevitabile e non ha peraltro evitato le pesanti conseguenze del declino della musica d’Arte. Nel frattempo le neoavanguardie si erano già trasformate e infiltrate nelle maglie del potere politico cercando alleanze strategiche di pura sopravvivenza istituzionale. Per gli oppositori lo spazio era ridotto e la ricerca di consenso difficile.

La società era stata già plasmata. Il momento giusto era il ’68: agiste, in effetti, con ritardo.

Non credo proprio che quegli anni fossero adatti al discorso del neoromanticismo, anzi proprio in quel periodo le avanguardie e il pensiero strutturalista prendeva possesso delle università, degli editori, dei teatri.

La musica d’avanguardia è divenuta pura autoreferenzialità, soliloquio tra élites salottiere, praticamente senza pubblico vero, ma il vero problema è che anche la nostra lo è, ed è così per tutta la musica classica. Io non ho soluzioni, posso solo continuare ad adoperarmi in quello che so fare sperando che accadano cose nuove. Deve rimanere sempre attiva la speranza di un cambiamento e penso sia più interessante e produttivo produrre forme, avere e dare la possibilità di ascoltare piuttosto che lamentarsi del fatto che le cose non vadano come dovrebbero andare. Bisogna agire, e il mio unico mio modo di agire è continuare a scrivere quella musica alternativa al consumo e alla pura ricerca sperimentale, entrambe sono necessarie e, forse anche auspicabili, se lavorano nella qualità. La terza via è, però, ancora lì, incarnata dai grandi autori del Novecento che continuano a parlarci e ad essere amati da una grande fetta di pubblico attivo.

Ho fiducia nella condivisione: scrivo per essere ascoltato, per gli altri, per condividere la mia arte. Se non credessi in questo farei parte di questo gioco intellettuale esterno alla realtà e vorrei imporre alla società qualcosa che le è divenuto estraneo. Questo sarebbe disonesto. Come un buon cuoco, usando la metafora del cibo, ho il dovere di offrire qualcosa che è buono e che dia benefici; solo uno chef disonesto pretenderebbe di essere considerato un bravo cuoco anche se non lo è, facendo in modo che la gente consideri il suo cibo un bisogno: sa che non è gustoso, ma pretende, comunque, che venga apprezzato. Quando un’opera d’arte mi suggerisce qualcosa di autentico è come se diventassi io l’artista ed è questo fondersi con l’opera, di cui sto godendo il beneficio, che mi fa essere come lui. Questa condivisione supera ogni barriera razziale, sociale e geopolitica.

Si deve, quindi, continuare ad agire in onestà perché l’arte esprima sentimenti e passioni universali, eterne. La musica, infatti, non si costruisce con concetti, ma suoni, e il suono è asemantico, non ha significato, eppure quando si ascolta, se è arte autentica, si percepiscono valori assoluti, si coglie una verità. A questo punto, nonostante un compositore sia di 300 anni fa, lo sentiamo nostro, come se quel pezzo lo avesse scritto un nostro contemporaneo. Un grande poeta come Dante lo avvertiamo estremamente vicino e la stessa sensazione si ha con un’opera di Shakespeare: il loro comunicare sentimenti e idee che risuonano dentro di noi li rende autentici, immortali.

Come ha specificato, è proprio la società che non ci dà il tempo – inteso propriamente come tempo materiale – dal momento che l’arte richiede riflessione e attenta considerazione.

Bisogna riflettere, certo, però è anche vero che il beneficio dell’opera d’arte può non essere sempre immediato. Si va ad una mostra, si legge un libro, si ascolta una musica mai sentita, si accumula questo materiale nel nostro inconscio e prima o poi una forma di restituzione a nostro vantaggio e beneficio arriverà, ci trasformerà per sempre e ci renderà diversi da come eravamo. Più l’opera d’arte è forte, vera, potente, autentica e necessaria più riconosci in essa una verità che ti cambia profondamente. Se ascolti grande musica non solo comprendi di aver fatto bene a sentirla, ma sostieni risolutamente la necessità della sua esistenza, anzi, capisci che non potresti più viverne senza e che la sua presenza nel mondo sia la vera normalità. Se perdessimo improvvisamente la cappella Sistina dissiperemmo una verità di cui sentiremmo per sempre la mancanza, non avremmo la certezza che l’animo umano può raggiungere vertici assoluti, rivoluzionari. Ci sentiremmo come privati di un arto o di un organo, non più capaci di mantenere intatta la nostra integrità e il nostro equilibrio psicofisico. Le opere d’arte sono necessarie all’umanità, ma questo si dimentica o semplicemente non si sa; conoscere l’esistenza dei quartetti di Beethoven potrebbe trasformare la nostra vita in meglio e per sempre. Il problema è che oggi ci si accontenta e quello che facilmente ci viene offerto risulta più che sufficiente. Dobbiamo ricordarci di essere avidi, ma non di danaro, di curiosità.

L’arte è, però, considerata nemica di qualsiasi potere. Avendo un significato, a volte non immediatamente percepibile, ma profondo e vero, suscita il timore di un’apertura mentale che è possibile, di certo, con i grandi artisti e molto meno con i semplici “artigiani”.

Certo. Molti governi fanno leva sull’insipienza delle persone, sull’opportunità di mantenerle estranee dalle cose della Cultura e delle Arti ed è chiaro che si tende a limitare la coscienza prima ancora della conoscenza: meno accesso al sapere significa migliore possibilità di manipolazione politica. Questo è un progetto, un disvalore che ci accompagna nel corso della Storia, dall’inizio dei tempi direi, il sopruso del più forte o del più astuto contro il bene comune. Gli artisti di ogni epoca sono stati al contempo vittime e strumenti di questo potere, nella consapevolezza, ma anche nella completa sudditanza e accettazione.

Soprattutto per la nostra.

Sì, perché è una società basata sul larghissimo consumo e sulla manipolazione sottile dei significati. I nuovi eroi di massa sono il risultato di una ricerca di mercato amplissima e tendenziosa che riproduce le strategie politiche, a volte superandone le tecniche di persuasione: ti creo il supercantante di cui non avevi affatto bisogno e ti convinco invece che era tutto quello che in fondo desideravi per essere felice. Che bisogno hai, a quel punto, di cercare un’alternativa?

 È quello che intendevo parlando di tempo.

Ciò gioca a sfavore. Il problema non si pone nelle arti visive dal momento che possono essere o possedute solo da chi ha l’opportunità di acquistarle o semplicemente ammirate in un museo senza possibilità di “comprarle”. Sono solo o pettegolezzo o vivono nella realtà se trasformate in oggetti industriali: ecco nascere il design!

Anche i musei sono poco frequentati…

In realtà le persone affollano i musei spesso attratte da altro. Ci si reca, ad esempio, ad una mostra di Van Gogh perché noto come strano personaggio, un po’ matto, nel suo gesto estremo di recidersi un orecchio. Comunque, qualunque sia il motivo, l’importante è che chi è andato a vedere le sue opere senza sapere veramente perché o attratto dal pettegolezzo, poi ne esce trasformato. In qualche modo questo contatto senza mediazione potrà compiere il miracolo della trasmutazione delle nostre idee e delle nostre convinzioni anche sociali.

Io ho fiducia nelle piccole cose. Ecco, tu ora mi stai intervistando ed io sono soddisfatto perché dai spazio e voce alle mie idee. Chi leggerà questa intervista scoprirà che esiste anche oggi la musica come Arte e come pensiero attraverso la scrittura mentre magari non si è mai posto il problema se esistano i compositori, o addirittura non ne conosce il significato. Si è informati su chi interpreta la musica, ma molto probabilmente non ci si chiede più se la musica si scrive. Io non vivo ignorando, so come si crea tutta la musica, quali sono i meccanismi per crearne, ad ogni livello e in ogni linguaggio. Non giudico e penso dall’alto che tutti siano ignoranti e incapaci. Niente affatto. Ci sono livelli e valori diversi per fare ciò che utilizza la creatività umana e anche le cose semplici lo sono solo in apparenza: cantare bene una bella canzone è difficile come cantare bene un’intera opera, i mezzi e le tecniche sono diversi.

Apprezza questo genere?

Io posso anche apprezzare, l’importante è che ci sia verità e sincerità. Anche nella musica pop è possibile riconoscere grandi artisti, limitatamente alla forma che usano, e la diversità sta proprio in questo. Una canzone non è una sinfonia, ma si deve ascoltare con la chiara consapevolezza che si tratta di musiche diverse, che pretendono atteggiamenti e consapevolezza differenti. Chi vuole dedicarsi alla musica ad un primo livello – e si vede questa grande necessità nei talent show televisivi – deve prendere coscienza delle proprie capacità e propensioni, capire la necessità dello studio e del sacrificio, parole oggi poco amate, e non pretendere di essere davvero artisti solo perché si lavora su un’immagine e non su una tecnica.

Il problema è che questo accade.

Si può anche scoprire qualche artista, ma il rischio reale è che passi un messaggio di semplicità, facilità, mentre nulla è semplice. Anche cantare bene una canzone in modo intonato non è elementare, sono necessari studio, pazienza, e, soprattutto, talento, quella qualità fondamentale, innata, che o si ha dal principio o non si potrà mai ottenere. Pronuncio una frase che potrebbe risultare impopolare e, dunque, richiede un’attenta e corretta interpretazione: arte e democrazia non vanno d’accordo, la democrazia applicata all’arte non conduce mai a buoni risultati.

Se non si ha il talento è preferibile svolgere un qualunque altro mestiere per cui si è portati, ma non pretendere di fare l’artista; si può dedicare tutta la vita allo studio, ma se manca il quid, quella cosa ineffabile, inspiegabile, non acquistabile, non si potrà mai andare oltre un certo limite. È l’illusione molto contemporanea che tutti possano essere artisti, che sia sufficiente acconciarsi in un certo modo per diventarlo, ma si tratta solo di un’ingannevole menzogna. Un esempio quotidiano è quello delle innumerevoli adolescenti che desiderano a tutti i costi fare le fotomodelle e non comprendono che non basta vestirsi in un certo modo per esserlo, come non è sufficiente qualche lezione o l’acquisto di una determinata racchetta per diventare un grande campione di tennis.

Creano con leggerezza l’illusione di poter fare la ballerina quando molte bambine non sono dotate di un fisico appropriato.

Mia moglie insegna danza e ha a che fare con diverse situazioni del genere.

 Lei lavora con e per la danza: questo le ha permesso di rivolgersi ad un diverso uditorio?

Sì, mia madre era una ballerina scaligera, quindi la danza è a me molto vicina.

È un’arte ancora molto aperta al pubblico.

Quella contemporanea, ancora più di quella classica, ha un grande pubblico di giovani perché è un’arte aperta al nuovo e, forse, il coinvolgimento fisico, la fisicità oggi colpisce molto l’immaginario dei ragazzi sotto diversi punti di vista. È una buona mediazione come il teatro, ma non usa la parola, come l’opera, non si canta, si agisce con il corpo.

Quando scrivo per la danza mi sento più libero perché posso esprimermi con uno stile ancora diverso rispetto a quando scrivo musica da camera o sinfonica; ho l’opportunità di servirmi di materiali anche molto differenti che non userei in altre circostanze, come l’elettronica. La tecnologia, in cui io ho creduto, mi ha aiutato notevolmente e lavorare per la danza mi piace, mi appassiona molto. Sono due anime che convivono in me. Ho sempre grande soddisfazione quando lavoro per la danza perché c’è entusiasmo, il pubblico è meno malizioso e ideologico di quello che frequenta i concerti; è una platea curiosa, attratta e impaziente di cose nuove.

Si deve eliminare, anche in questo campo, l’equivoco del talent show, l’inganno che in tre mesi si possa diventare ballerini poiché la danza è, al contrario, una disciplina tecnica in cui non esiste democrazia. È un’arte selettiva e la selezione fisica è forte, soprattutto nella classica. Nel contemporaneo si dà più spazio – anche se richiede ugualmente studio e tecnica – a una fisicità più reale e meno artefatta e, già in questo, mostra una maggiore apertura. C’è ancora un grande fermento, una grande evoluzione, anche se i morsi della crisi sociale limitano spazi e opportunità anche in questo ambito.

Sua moglie, Emanuela Tagliavia, insegna danza contemporanea?

È una coreografa affermata, un’ex ballerina classica che insegna contemporaneo in grandi scuole ed è evidente che nel suo stile c’è la consapevolezza della multidisciplinarietà stilistica. Si parte dal teatro danza per costruire, attraverso la memoria classica, uno stile contemporaneo solidamente ancorato alla tecnica basilare nella sua grande evoluzione novecentesca. È una strada ancora aperta che sono felice di percorrere in questo lavoro comune di collaborazione tra coreografa e compositore, praticato con grandi risultati per buona parte del Novecento.

Lei collabora praticamente anche durante le prove.

Progettiamo insieme dalla prima all’ultima battuta. Stravinskij e Balanchine sono stati gli ultimi a creare dei capolavori sia di coreografia che di musica in cui i due aspetti procedevano all’unisono. Questa collaborazione tra artisti ha sempre creato dei risultati e il suo venir meno risulta oggi negativo sia per la danza che per i compositori. Io, invece, continuo a crederci molto.

 Anche perché risulta indispensabile la collaborazione.

Totalmente, ma bisogna conoscere la danza, sapere quali sono le esigenze, amarla, e molti colleghi compositori la ignorano, purtroppo, e non ne conosco il motivo se non la pigrizia mentale e la gelosia.

 Era una passione che nutriva fin dal principio o è maturata negli anni?

Fin da bambino, e non solo per trasmissione diretta di mia madre. È una conoscenza, una passione a cui si può arrivare se solo se ne coglie la grande potenzialità.

Intervista a cura di Vincenza Longo

Per conoscere la musica del Maestro Testoni:
http://www.giampaolotestoni.com

Info: http://it.wikipedia.org/wiki/Giampaolo_Testoni
YouTube: http://it.youtube.com/user/759142

Editori:
– Sconfinarte: http://www.edizionisconfinarte.com
– Casa Musicale Sonzogno: http://www.sonzogno.it/it/compositore?id=1962&lang=it&epoca=1
– Casa Ricordihttp://www.ricordi.it/catalogue/composers/giampaolo-testoni/

iTunes: http://itunes.apple.com/it/album/testoni-506-luminare-minus/id491339788

http://www.myspace.com/giampaolotestoni
https://soundcloud.com/giampaolo-testoni
https://giampaolotestonicompositore.bandpage.com/
https://vimeo.com/giampaolotestoni

Le immagini sono tratte dal sito http://www.giampaolotestoni.com

(www.excursus.org, anno IX, n. 79, gennaio 2017)