di GIUSEPPE LICANDRO – Dal 1914 al 1918 il mondo fu stravolto dalla Grande Guerra, che impegnò oltre 70 milioni di soldati, 9 milioni dei quali perirono in una logorante “guerra di posizione” che si svolse soprattutto nella “terra di nessuno”, la striscia di terreno compresa tra le trincee.
Il 1917 fu l’anno della svolta: gli Stati Uniti scesero in campo al fianco dell’Intesa, contribuendo poi alla sconfitta degli Imperi Centrali, mentre la Russia si ritirò gradualmente, in seguito alla duplice rivoluzione che provocò la caduta dello zar e l’ascesa al potere dei bolscevichi (la corrente massimalista del Partito Operaio Socialdemocratico Russo).
Per commemorare il centenario di quel fatidico anno, lo storico Angelo d’Orsi, professore ordinario di Storia del Pensiero Politico all’Università di Torino, ha pubblicato il volume 1917. L’anno della rivoluzione (Laterza, pp. 270, € 18,00). Il saggio ricostruisce le principali vicende della Rivoluzione Russa, facendo puntuali riferimenti alle operazioni militari della Prima Guerra Mondiale e ad altri avvenimenti internazionali accaduti in quei dodici mesi.
La Rivoluzione di Febbraio
I primi tre anni di guerra erano stati molto duri per la Russia, messa in ginocchio dalle sconfitte militari, dalle carestie e dall’inflazione. Nella classe dirigente, perciò, si era radicata la convinzione che «il regime zarista fosse da abbattere prima che si giungesse al crollo generale del Paese», anche se la borghesia liberale voleva proseguire la guerra al fianco degli alleati.
Fu la popolazione di Pietrogrado a iniziare la rivoluzione: l’8 marzo 1917 – il 23 febbraio, secondo il calendario giuliano ancora in vigore in Russia – gli operai delle officine tessili scesero in sciopero e cominciarono a manifestare contro il governo, insieme a un nutrito gruppo di donne che chiedevano la fine della guerra e del carovita. Nei giorni seguenti la protesta coinvolse oltre 200 mila lavoratori, mentre la polizia e l’esercito si astennero dall’intervenire.
L’11 marzo alcuni reparti militari iniziarono a sparare sulla folla, provocando circa quaranta morti, ma molti soldati si ribellarono agli ordini e aprirono il fuoco sugli ufficiali. Abbandonato dalla maggioranza delle truppe, il 15 marzo lo zar Nicola II abdicò in favore del fratello Michele, che però rifiutò la corona. Il parlamento (la Duma) elesse allora un governo provvisorio guidato da Georgij L’vov, esponente del Partito Costituzionale Democratico, che rimase in carica fino a luglio, anche se fu «di fatto impossibilitato o incapace di esercitare qualsivoglia autorità».
Nello stesso tempo risorsero i Soviet, cioè i consigli di contadini, operai e soldati nati durante la rivoluzione del 1905, che furono egemonizzati dal Partito Socialista-Rivoluzionario, radicato tra i contadini, e dalle due correnti del Posdr, i bolscevichi e i menscevichi, che riscuotevano i loro maggiori consensi tra gli operai.
Il Psr e i menscevichi ritenevano che la Russia fosse troppo arretrata per poter realizzare il socialismo e volevano realizzare una serie di riforme democratiche attraverso la convocazione di un’Assemblea Costituente. I bolscevichi, invece, avevano assunto posizioni più radicali, grazie alla guida di Vladimir Il’ič Ul’janov (detto Lenin), il quale era convinto che occorresse «trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria».
Durante la Rivoluzione di Febbraio, Lenin era esiliato in Svizzera e gli altri dirigenti bolscevichi, indecisi sul da farsi, erano orientati a «continuare la guerra contro la Germania, […] il più pericoloso degli imperialismi».
Lenin rientrò in Russia il 16 aprile, con l’ausilio del governo tedesco, il quale – sperando nel ritiro dei russi dalla guerra – lo fece transitare sul proprio territorio a bordo del treno che lo portò in patria. Giunto alla stazione di Finlandia di Pietrogrado, il leader comunista arringò la folla sopra un carro armato, esprimendo «la volontà di continuare la vittoriosa rivoluzione russa» e di porre al più presto fine «alla sporca guerra imperialista».
Il giorno seguente, durante la Conferenza Panrussa dei Soviet tenutasi a Pietrogrado, Lenin lesse le Tesi di Aprile, in cui auspicava l’avvento della «Repubblica dei Soviet» col «passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia […], alla sua seconda fase, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini».
Fatima e le rivolte contro la guerra
Il 13 maggio a Fatima, in Portogallo, tre pastorelli annunciarono che «una signora biancovestita si sarebbe palesata ai loro occhi […] confidando loro tre importanti “segreti”». La “mariofania” fu una delle conseguenze psicologiche più considerevoli della guerra, perché rappresentò – secondo Ernesto De Martino – «il vero e proprio inizio di rivalutazione esistenziale della religione e del mito», in chiave consolatoria e messianica.
Si manifestarono proprio allora i primi sintomi di disagio dei soldati italiani, costretti da Luigi Cadorna – Capo di Stato Maggiore – a insensati attacchi e sottoposti a dure punizioni nel caso si mostrassero codardi. A Santa Maria La Longa (Udine), i militi della Brigata Catanzaro brandirono le armi contro gli ufficiali e i carabinieri, ma furono severamente castigati «con decimazioni casuali, e con rinvii a giudizio finiti con condanne».
In Russia si acuì il “dualismo dei poteri” tra i Soviet e il governo provvisorio: nonostante la contrarietà dei primi, il social-rivoluzionario Aleksandr Kerenskij – Ministro della Guerra – scatenò un’offensiva in Galizia all’inizio di luglio. Le truppe, tuttavia, si ammutinarono e si arresero ai nemici, che ebbero la possibilità di avanzare per circa 130 chilometri in territorio russo.
Il 16 giugno una grande manifestazione popolare contro la guerra fu organizzata a Pietrogrado. I bolscevichi cercarono di indirizzare il movimento verso esiti rivoluzionari, ma i moti furono prontamente repressi. Lenin fuggì in Finlandia, mentre furono arrestati vari capi socialisti, tra i quali Lev Trockij, avvicinatosi ai bolscevichi dopo averli in precedenza criticati. L’vov, tuttavia, dovette dimettersi e fu sostituito alla guida del governo da Kerenskij, che affidò il comando dell’esercito al generale Lavr Kornilov.
Il 1° agosto papa Benedetto XV inviò una Nota ai governi impegnati nel conflitto, nella quale denunciò «l’inutile strage», invitandoli a intavolare le trattative di pace. A causa dell’aumento del prezzo del pane, ventuno giorni dopo scoppiò una rivolta a Torino, un movimento «assolutamente spontaneo e non organizzato, […] animato innanzi tutto da donne». L’appello papale rimase inascoltato e il moto torinese fu prontamente sedato, ma entrambi fecero capire che serpeggiava ormai un grande malcontento popolare.
Kornilov e Caporetto
Dopo l’occupazione tedesca di Riga, il generale Kornilov organizzò un colpo di stato, ordinando ai soldati di avanzare verso Pietrogrado per instaurare una dittatura militare (8 settembre). Il golpe, tuttavia, fallì, grazie ai ferrovieri bolscevichi, che sabotarono i treni su cui viaggiavano le truppe controrivoluzionarie, inducendo molti militi a disertare.
Il 24 ottobre le truppe austro-ungariche, rinforzate da varie divisioni tedesche, sfondarono il fronte italiano nei pressi di Caporetto. A essere sorpresa dall’offensiva degli Imperi Centrali – i cui capi militari non esitarono a ordinare l’uso di gas asfissianti – fu la Seconda Armata, comandata dal generale Luigi Capello, ma in particolare il XXVII Corpo d’Armata, guidato dal tenente generale Pietro Badoglio.
L’esercito italiano fu costretto a una precipitosa ritirata di circa 150 chilometri, durante la quale perirono circa 10 mila soldati, altri 30 mila rimasero feriti e oltre 250 mila vennero presi prigionieri. Il governo Boselli si dimise e il 30 ottobre fu sostituito da un gabinetto guidato da Vittorio Emanuele Orlando, mentre il fronte si spostò sul fiume Piave.
Le ragioni principali del disastro militare – secondo l’autore – furono «la stanchezza delle truppe e gli errori strategici e tattici degli Alti comandi». Nei mesi precedenti, infatti, Cadorna aveva logorato i soldati con inutili offensive sull’Isonzo e sul Carso, generando disaffezione e scoramento nelle truppe, e inoltre aveva sistemato male le proprie divisioni nella valle dell’Isonzo. La disfatta fu causata anche dal massiccio trasferimento di truppe austriache e tedesche dal fronte orientale, dopo lo sfaldamento dell’esercito russo.
La Rivoluzione d’Ottobre
Il governo provvisorio russo appariva in chiara difficoltà e ciò spinse il Comitato Centrale del Partito Bolscevico a organizzare un’insurrezione armata, che il 7 novembre (25 ottobre del calendario giuliano) consentì ai rivoluzionari di impadronirsi del potere, costringendo alla fuga Kerenskij.
Di quei concitati momenti ha fornito un’eccellente testimonianza John Reed nel libro I dieci giorni che sconvolsero il mondo (Rizzoli), dove esaltò Lenin come mente organizzatrice del «colpo di mano» che consentì ai bolscevichi di conquistare il Palazzo d’Inverno. Un ruolo importante nell’insurrezione fu svolto anche da Trockij, che nelle settimane precedenti aveva predisposto «tutti i passi necessari per una presa del potere attraverso truppe scelte composte di uomini fidati, bolscevichi di sicura fede».
La sera del 7 novembre si riunì il II Congresso Panrusso dei Soviet, che elesse un nuovo governo, il Consiglio dei Commissari del Popolo, presieduto da Lenin. L’esecutivo approvò alcuni decreti che disposero la distribuzione delle terre ai contadini, la statalizzazione delle fabbriche e delle banche, l’avvio di trattative per l’uscita dalla guerra.
A novembre accaddero altri avvenimenti importanti: Armando Diaz occupò il posto di Cadorna a capo dell’esercito italiano; salì al potere Georges Clemenceau, il leader radicale che portò poi la Francia alla vittoria; l’Intesa iniziò a usare i primi carri cingolati, che ebbero un ruolo decisivo nell’ultima fase della guerra; Arthur Balfour, Ministro degli Esteri britannico, inviò a Lord Rothschild – capo della comunità ebraica inglese – un dispaccio, nel quale dichiarava che il governo londinese era «a favore della costituzione di un “focolaio ebraico” in Palestina».
In Russia si tennero le elezioni per l’Assemblea Costituente, che inaspettatamente videro la vittoria dei social-rivoluzionari (410 seggi), mentre i bolscevichi giunsero secondi (175 seggi). Si creò così un nuovo “dualismo di poteri”, che fu risolto nel gennaio 1918, quando l’Assemblea Costituente fu sciolta con un atto di forza dalle Guardie Rosse e sostituita dai Soviet.
Il saggio di d’Orsi si chiude con la trattazione del dibattito sulla Rivoluzione Russa che coinvolse vari marxisti italiani e vide contrapposti coloro che difendevano le scelte dei bolscevichi (come Antonio Gramsci e Amedeo Bordiga) a chi invece riteneva che la Russia non fosse ancora matura per l’avvento del socialismo (come Rodolfo Mondolfo).
Emblema e compendio del tragico 1917 fu l’incidente che si verificò il 6 dicembre nel porto canadese di Halifax, dove un cargo norvegese urtò una nave francese che portava armi e munizioni, con un bilancio gravissimo: «2000 morti, 9000 feriti, la città semi-distrutta». Ci sarebbero voluti, tuttavia, ancora 11 mesi prima del termine della Grande Guerra, che «tanta violenza, tanto orrore, tanta sofferenza» provocò in tutto il pianeta.
Giuseppe Licandro
(www.excursus.org, anno IX, n. 81, marzo 2017)